Basta quella parola "FINE" per intendere "MORTE". E io me la porto dietro ormai in troppe ore del giorno, anche nel lavoro, dove mi proietto sempre nel NUOVO e penso sempre a qualcuno dei miei. E' come un fantasma che non ha ancora un viso, in piedi al di là di un fiume in piena, nero marrone che trascina giù tutto. Ma al di là di quel rumore e di quella sensazione di paura vedo un giovane elegante, vestito di bianco, che mi grida qualcosa.
Non sento nulla, perché il rumore dell'acqua divora ogni suono.
Sembra che la vita cammini secondo il solito spartito. Un'armonia regolare di azioni che non fa prevedere nessuna fine. Guardo le mie dita che battono queste parole e non tremano; è come se battessero un'email al mio geometra per un preventivo lavori, e invece mi sto avvicinando a un mondo surreale... ma inconcludente. Così non vado da nessuna parte.
Se quel giovane vestito di bianco potesse sentirmi, e saltare di qua del fiume, potrei finalmente parlargli; sedersi su una pietra, uno vicino all'altro, e dirgli come vedo il futuro, il mio io e lui il suo. E consegnargli il nostro.
Ma se questo volo non si avvera, se lui non supera quello spazio prigioniero di una corrente d'acqua che, giorno dopo giorno non è più neppure liquida ma diventa dura, compatta come se fosse ghiaccio, vedrò le nostre bocche aprirsi e chiudersi senza suoni.
E questa e proprio la parola "FINE", la parola "MORTE", quando il giovane vestito di bianco stringerà la mia mano appoggiata sulla coperta del mio letto. Sentirò la sua forza, ma io non troverò la mia per rispondergli. Ora mi alzo e vado di la, perché penso che Monica, con sapienza e pazienza, abbia già messo limone nei molluschi. Con cura, ad uno ad uno. E tutto finisce in un peccato di gola. E il fiume della morte, e il giovane bianco vestito chi se li ricorda già più?
Anche perché c'è un bicchiere di Malvasia fermo che aspetta al centro tavola.