Tra Surreale e Reale. Opere dagli anni '70

di Elena Pontiggia
Ho conosciuto Guglielmo Spotorno prima di conoscerlo. Molti anni prima di sapere che dipingeva avevo infatti avuto occasione di frequentarlo come collezionista: un collezionista appassionato, insieme generoso e geloso delle sue opere, cioè disposto a concederle con altruismo a una mostra, ma solo se lo convinceva il progetto espositivo. Come, del resto, fanno tutti quei collezionisti per i quali i quadri non sono blue chips, ma creature vive. (Non voglio dire “figli” per non cadere nella retorica ma, insomma, il concetto è quello). E le collezioni di Gugi, come lo chiamano tutti a Celle Ligure dove vive, spaziavano con amore onnivoro lungo tutto il secolo: dalle opere entrate in casa grazie alla passione del padre, Franco, e cioè De Chirico, Carrà, Arturo Martini, Sironi, Funi (suo era uno dei De Chirico più commentati dagli studiosi, suo uno dei Funi più belli che abbia mai visto), fino alle opere della grande stagione dell’informale europeo, per non parlare della superba collezione di grafica che comprendeva tutti, ma proprio tutti, i maggiori maestri del secolo.
Avevo poi incontrato varie volte sui libri il nome della Galleria Spotorno, diretta da sua madre Enrica, che era stata anche scultrice. La galleria di via Moscova 40 era stata una delle più vivaci a Milano tra la metà degli anni cinquanta e la metà del decennio successivo. Nel 1960, fra l’altro, aveva pubblicato una riedizione, curata da Mario De Micheli, della Scultura lingua morta di Arturo Martini: un’operazione intellettuale preziosa in sé, ma ancora più significativa se si pensa che in quell’epoca il grande scultore era ben poco considerato. E mentre Enrica ripubblicava amorevolmente i suoi scritti, vari principi e re della critica lo relegavano nel limbo degli artisti minori, attardati, espressione di un’Italietta ignorante e provinciale.
Sapevo queste cose, dunque. Non sapevo invece, perché Guglielmo si era ben guardato dal dirmelo, che anche lui dipingeva.
E non sapevo, l’avrei scoperto solo dopo, che per lui la pittura non era un passatempo domenicale, una parentesi distensiva in una vita di lavoro frenetica e complessa, ma una passione coltivata fin da ragazzo, complice il clima di casa, la sensibilità e la vocazione artistica della madre, la cultura e la personalità del padre. La sua era una passione disattesa ma mai dimenticata, e riemersa anzi prepotentemente negli anni settanta.
Qual è, ci si potrebbe chiedere, l’orientamento espressivo di Spotorno? Potremmo dire, con qualche schematicità, che la sua ricerca si muove tra un informale di ascendenza surreale e un astrattismo carico di riferimenti quotidiani, sia pure mimetizzati nella libertà dei segni. Nato a Milano nel 1938, Spotorno appartiene alla generazione che si è formata nel clima della stagione informale. Aveva vent’anni o poco più quando l’arte di segno, di gesto, di materia raggiungeva in Italia la massima diffusione, ma il suo interesse si è rivolto soprattutto al gruppo Cobra e a un protagonista eretico del surrealismo come Sutherland.
Si può considerare inevitabile che, dopo aver così a lungo amato Jorn e Sutherland, ma anche Matta, Spotorno ne abbia subito la suggestione nella pittura. Tuttavia le cose non sono così semplici e, a ben vedere, solo in parte sono andate così.
Quella di Guglielmo non è un’imitazione passiva, meccanica. Al contrario ha ritrovato in quei maestri, istintivamente, anche qualcosa che aveva dentro di sé, e che aveva manifestato già da ragazzo, quando frequentava ancora la seconda media in via Tadino a Milano e aveva partecipato alla “Mostra Artistica Internazionale della scuola a Roma”. Alla rassegna, allestita a Palazzo Venezia, aveva inviato un Incubo che era stato notato da Fellini e che rivelava già la fantasia allucinata di un’opera surreale.
Anche se - non c’è bisogno di aggiungerlo - il surrealismo a quell’epoca Guglielmo non l’aveva mai visto.
A quelle affinità elettive Spotorno mescola poi una altrettanto innata passione per la filosofia, che non solo l’ha portato a laurearsi nel 1971 con Bontadini in teoretica (strappando più al sonno che al lavoro le ore di studio), ma si è espressa anche nei suoi quadri.
Ci spieghiamo meglio. Enrico Baj, dedicandogli uno dei suoi celebri “generali”, gli aveva scritto: “A Guglielmo e al senso erratico dell’autoconcessione”, giocando scherzosamente sul doppio senso della sua fortunata attività professionale. Erratico Spotorno lo è davvero. Ma qualcosa unisce le diverse declinazioni della sua pittura ed è un’attenzione partecipe, accorata, alle contraddizioni del presente. Le sue opere sono, da un punto di vista segnico, lontane dal realismo e potremmo definirle, riprendendo la famosa definizione di Klee, “astratte con qualche ricordo”. Tuttavia non sono mai un puro esercizio formale.
Si insinua nelle sue composizioni, piuttosto, un pensiero che va al di là della piacevolezza dei segni, dell’armonia delle linee, della luminosità del colore e denuncia contraddizioni, crisi, questioni irrisolte o forse irrisolvibili.
Prendiamo Pechino, una delle Città umanizzate, cioè considerate come cose vive, che costituiscono il ciclo di opere più recenti. Apparentemente il paesaggio urbano è visto dall’alto e dall’esterno e si traduce in un accordo di linee e di colori, come in una sorta di musica dipinta. Eppure il formicaio di case, la congerie di abitazioni tutte uguali segnalano un pericolo: un troppo identico modo di essere, un conformismo in agguato. La città umanizzata, insomma, rivela anche qualcosa di inumano.
Del resto basta vedere i titoli delle opere di Spotorno per accorgersi che la sua attenzione si concentra spesso sulle vicende della storia recente. La sua riflessione si sofferma sulla tragedia dello Tsunami, sul disastro atomico di Fukushima, sulla strage dell’ 11 settembre, sull’inquinamento che minaccia la natura e rende Il sole nero. O, ancora, sul paradosso di uno Stato che, incapace di riorganizzare le baracche delle proprie periferie, organizza i campionati del mondo di calcio.
E sono, i suoi, soltanto Mondiali della povertà.
D’altra parte anche dove non c’è violenza, nel mondo virtuale del computer e del web, dove si parla solo inglese e ci si muove a passi felpati tra user-id e password, è in agguato la disumanità. L’uomo al computer non scrive lettere ma mail, eppure è segnato dal peccato originale come l’uomo della pietra. E poi è inutile che sia così suberbo, perché nel mondo di Guglielmo Spotorno Anche i cigni twittano. Anche loro. La natura ne sa di più dell’uomo, delle sue invenzioni, del suo cosiddetto progresso.
Certo, l’artista non dimentica lo spettacolo della bellezza. Ed è il mare, soprattutto, a commuoverlo: il mare dove ha vissuto (e, sarebbe meglio dire, con cui è vissuto) fin dall’infanzia, e che non smette di affascinarlo con le sue trasparenze, con quello che Dante chiama “il tremolar della marina”, con la sua immensità che dà l’idea dell’infinito. Eppure non c’è estetismo nella pittura di Spotorno. Lui sa bene, del resto, che nella profondità delle acque si svolge una lotta per la sopravvivenza che non conosce pace né armistizio. Sa che la natura è il luogo di una guerra dove il debole soccombe. E’ raro che in opere non legate stilisticamente al realismo ma seguaci di un linguaggio astratto-informale si avverta tanta attenzione - un’attenzione filosofica, ma anche, per così dire, sociologica - ai problemi dell’oggi. Astrarre deriva da “ab-s-trahere”: trarsi fuori (dalla realtà). Invece nella pittura di Guglielmo, anche in quella più astratta e informale, la realtà con le sue dissonanze è sempre presente. E sta in questo la sua singolarità.
Non si tratta, va detto, di contenutismo. Nelle sue opere l’attenzione al come dire precede ogni attenzione al cosa dire.
Spotorno sa che in arte la forma è il vero contenuto, non perché ci si debba racchiudere nel formalismo, ma perché solo attraverso la padronanza del linguaggio si può esprimere un pensiero. Dunque non troveremo nei suoi quadri quel greve appello alla denuncia sociale, alla valenza politica dell’opera che ha escluso dall’arte tanta pittura del dopoguerra. Tuttavia le sue tele non si accontentano nemmeno di esplorare i territori del colore, la variazione degli smalti, le screziature dei toni.
Anche dietro le tarsie cromaticamente più suadenti c’è sempre – o quasi – l’evocazione di un’idea, di un problema.
Non diversamente, del resto, accade nelle sue poesie, dove non manca mai, anche nelle descrizioni più oniriche, un riferimento allarmato. “Se almeno fosse dolore/ sapremmo dove fuggire. / Ma questa paura/ lega le mani / con fili d’acqua” leggiamo per esempio in una sua pagina.
In un’altra I pesci rossi di Matisse suggeriscono una riflessione lontana dalla gioia di vivere del pittore francese. “Siamo 2 pesci rossi/ che si ubriacano/ di girotondi/ nella sfera di cristallo./ Se non ci fosse la morte/ sul tavolo/ salterei subito fuori”.
In una terza, ancora, una figura femminile davanti allo specchio scopre che “il trucco si scioglie/ sotto la lampada/ dell’inutile”.
E’ un dolore senza grida, percorso semmai da un filo di ironia, quello che si coglie nelle poesie, come nei quadri di Spotorno: un dolore descritto con l’umiltà di chi sa che è facile, ripensando al passato e sognando il futuro, non capire il presente, lasciarsi sfuggire l’attimo in cui è possibile “rubare il frutto/ alla pianta”. Delle sue opere, allora, si può dire quello che lui stesso dice delle sue poesie: sono “fogli unici a quadretti” dove, tra surreale e realtà, si prende nota della vita.
Ho conosciuto Guglielmo Spotorno prima di conoscerlo. Molti anni prima di sapere che dipingeva avevo infatti avuto occasione di frequentarlo come collezionista: un collezionista appassionato, insieme generoso e geloso delle sue opere, cioè disposto a concederle con altruismo a una mostra, ma solo se lo convinceva il progetto espositivo. Come, del resto, fanno tutti quei collezionisti per i quali i quadri non sono blue chips, ma creature vive. (Non voglio dire “figli” per non cadere nella retorica ma, insomma, il concetto è quello). E le collezioni di Gugi, come lo chiamano tutti a Celle Ligure dove vive, spaziavano con amore onnivoro lungo tutto il secolo: dalle opere entrate in casa grazie alla passione del padre, Franco, e cioè De Chirico, Carrà, Arturo Martini, Sironi, Funi (suo era uno dei De Chirico più commentati dagli studiosi, suo uno dei Funi più belli che abbia mai visto), fino alle opere della grande stagione dell’informale europeo, per non parlare della superba collezione di grafica che comprendeva tutti, ma proprio tutti, i maggiori maestri del secolo.
Avevo poi incontrato varie volte sui libri il nome della Galleria Spotorno, diretta da sua madre Enrica, che era stata anche scultrice. La galleria di via Moscova 40 era stata una delle più vivaci a Milano tra la metà degli anni cinquanta e la metà del decennio successivo. Nel 1960, fra l’altro, aveva pubblicato una riedizione, curata da Mario De Micheli, della Scultura lingua morta di Arturo Martini: un’operazione intellettuale preziosa in sé, ma ancora più significativa se si pensa che in quell’epoca il grande scultore era ben poco considerato. E mentre Enrica ripubblicava amorevolmente i suoi scritti, vari principi e re della critica lo relegavano nel limbo degli artisti minori, attardati, espressione di un’Italietta ignorante e provinciale.
Sapevo queste cose, dunque. Non sapevo invece, perché Guglielmo si era ben guardato dal dirmelo, che anche lui dipingeva.
E non sapevo, l’avrei scoperto solo dopo, che per lui la pittura non era un passatempo domenicale, una parentesi distensiva in una vita di lavoro frenetica e complessa, ma una passione coltivata fin da ragazzo, complice il clima di casa, la sensibilità e la vocazione artistica della madre, la cultura e la personalità del padre. La sua era una passione disattesa ma mai dimenticata, e riemersa anzi prepotentemente negli anni settanta.
Qual è, ci si potrebbe chiedere, l’orientamento espressivo di Spotorno? Potremmo dire, con qualche schematicità, che la sua ricerca si muove tra un informale di ascendenza surreale e un astrattismo carico di riferimenti quotidiani, sia pure mimetizzati nella libertà dei segni. Nato a Milano nel 1938, Spotorno appartiene alla generazione che si è formata nel clima della stagione informale. Aveva vent’anni o poco più quando l’arte di segno, di gesto, di materia raggiungeva in Italia la massima diffusione, ma il suo interesse si è rivolto soprattutto al gruppo Cobra e a un protagonista eretico del surrealismo come Sutherland.
Si può considerare inevitabile che, dopo aver così a lungo amato Jorn e Sutherland, ma anche Matta, Spotorno ne abbia subito la suggestione nella pittura. Tuttavia le cose non sono così semplici e, a ben vedere, solo in parte sono andate così.
Quella di Guglielmo non è un’imitazione passiva, meccanica. Al contrario ha ritrovato in quei maestri, istintivamente, anche qualcosa che aveva dentro di sé, e che aveva manifestato già da ragazzo, quando frequentava ancora la seconda media in via Tadino a Milano e aveva partecipato alla “Mostra Artistica Internazionale della scuola a Roma”. Alla rassegna, allestita a Palazzo Venezia, aveva inviato un Incubo che era stato notato da Fellini e che rivelava già la fantasia allucinata di un’opera surreale.
Anche se - non c’è bisogno di aggiungerlo - il surrealismo a quell’epoca Guglielmo non l’aveva mai visto.
A quelle affinità elettive Spotorno mescola poi una altrettanto innata passione per la filosofia, che non solo l’ha portato a laurearsi nel 1971 con Bontadini in teoretica (strappando più al sonno che al lavoro le ore di studio), ma si è espressa anche nei suoi quadri.
Ci spieghiamo meglio. Enrico Baj, dedicandogli uno dei suoi celebri “generali”, gli aveva scritto: “A Guglielmo e al senso erratico dell’autoconcessione”, giocando scherzosamente sul doppio senso della sua fortunata attività professionale. Erratico Spotorno lo è davvero. Ma qualcosa unisce le diverse declinazioni della sua pittura ed è un’attenzione partecipe, accorata, alle contraddizioni del presente. Le sue opere sono, da un punto di vista segnico, lontane dal realismo e potremmo definirle, riprendendo la famosa definizione di Klee, “astratte con qualche ricordo”. Tuttavia non sono mai un puro esercizio formale.
Si insinua nelle sue composizioni, piuttosto, un pensiero che va al di là della piacevolezza dei segni, dell’armonia delle linee, della luminosità del colore e denuncia contraddizioni, crisi, questioni irrisolte o forse irrisolvibili.
Prendiamo Pechino, una delle Città umanizzate, cioè considerate come cose vive, che costituiscono il ciclo di opere più recenti. Apparentemente il paesaggio urbano è visto dall’alto e dall’esterno e si traduce in un accordo di linee e di colori, come in una sorta di musica dipinta. Eppure il formicaio di case, la congerie di abitazioni tutte uguali segnalano un pericolo: un troppo identico modo di essere, un conformismo in agguato. La città umanizzata, insomma, rivela anche qualcosa di inumano.
Del resto basta vedere i titoli delle opere di Spotorno per accorgersi che la sua attenzione si concentra spesso sulle vicende della storia recente. La sua riflessione si sofferma sulla tragedia dello Tsunami, sul disastro atomico di Fukushima, sulla strage dell’ 11 settembre, sull’inquinamento che minaccia la natura e rende Il sole nero. O, ancora, sul paradosso di uno Stato che, incapace di riorganizzare le baracche delle proprie periferie, organizza i campionati del mondo di calcio.
E sono, i suoi, soltanto Mondiali della povertà.
D’altra parte anche dove non c’è violenza, nel mondo virtuale del computer e del web, dove si parla solo inglese e ci si muove a passi felpati tra user-id e password, è in agguato la disumanità. L’uomo al computer non scrive lettere ma mail, eppure è segnato dal peccato originale come l’uomo della pietra. E poi è inutile che sia così suberbo, perché nel mondo di Guglielmo Spotorno Anche i cigni twittano. Anche loro. La natura ne sa di più dell’uomo, delle sue invenzioni, del suo cosiddetto progresso.
Certo, l’artista non dimentica lo spettacolo della bellezza. Ed è il mare, soprattutto, a commuoverlo: il mare dove ha vissuto (e, sarebbe meglio dire, con cui è vissuto) fin dall’infanzia, e che non smette di affascinarlo con le sue trasparenze, con quello che Dante chiama “il tremolar della marina”, con la sua immensità che dà l’idea dell’infinito. Eppure non c’è estetismo nella pittura di Spotorno. Lui sa bene, del resto, che nella profondità delle acque si svolge una lotta per la sopravvivenza che non conosce pace né armistizio. Sa che la natura è il luogo di una guerra dove il debole soccombe. E’ raro che in opere non legate stilisticamente al realismo ma seguaci di un linguaggio astratto-informale si avverta tanta attenzione - un’attenzione filosofica, ma anche, per così dire, sociologica - ai problemi dell’oggi. Astrarre deriva da “ab-s-trahere”: trarsi fuori (dalla realtà). Invece nella pittura di Guglielmo, anche in quella più astratta e informale, la realtà con le sue dissonanze è sempre presente. E sta in questo la sua singolarità.
Non si tratta, va detto, di contenutismo. Nelle sue opere l’attenzione al come dire precede ogni attenzione al cosa dire.
Spotorno sa che in arte la forma è il vero contenuto, non perché ci si debba racchiudere nel formalismo, ma perché solo attraverso la padronanza del linguaggio si può esprimere un pensiero. Dunque non troveremo nei suoi quadri quel greve appello alla denuncia sociale, alla valenza politica dell’opera che ha escluso dall’arte tanta pittura del dopoguerra. Tuttavia le sue tele non si accontentano nemmeno di esplorare i territori del colore, la variazione degli smalti, le screziature dei toni.
Anche dietro le tarsie cromaticamente più suadenti c’è sempre – o quasi – l’evocazione di un’idea, di un problema.
Non diversamente, del resto, accade nelle sue poesie, dove non manca mai, anche nelle descrizioni più oniriche, un riferimento allarmato. “Se almeno fosse dolore/ sapremmo dove fuggire. / Ma questa paura/ lega le mani / con fili d’acqua” leggiamo per esempio in una sua pagina.
In un’altra I pesci rossi di Matisse suggeriscono una riflessione lontana dalla gioia di vivere del pittore francese. “Siamo 2 pesci rossi/ che si ubriacano/ di girotondi/ nella sfera di cristallo./ Se non ci fosse la morte/ sul tavolo/ salterei subito fuori”.
In una terza, ancora, una figura femminile davanti allo specchio scopre che “il trucco si scioglie/ sotto la lampada/ dell’inutile”.
E’ un dolore senza grida, percorso semmai da un filo di ironia, quello che si coglie nelle poesie, come nei quadri di Spotorno: un dolore descritto con l’umiltà di chi sa che è facile, ripensando al passato e sognando il futuro, non capire il presente, lasciarsi sfuggire l’attimo in cui è possibile “rubare il frutto/ alla pianta”. Delle sue opere, allora, si può dire quello che lui stesso dice delle sue poesie: sono “fogli unici a quadretti” dove, tra surreale e realtà, si prende nota della vita.