Guglielmo Spotorno
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Onora il padre... e la madre.

9/7/2018

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Quando ero piccolo, mio padre neppure l’ho visto.
Ero “sfollato” in montagna e lui lavorava a Milano. C’era la guerra e doveva salvare le auto, le gomme e le batterie dai tedeschi. Quando ho cominciato a conoscerlo, a 10 anni, ho avuto più rispetto che affetto: imperativi categorici e troppe le sue “imprese”.
Lo ammiravo, ma ero anche disturbato da coppe e medaglie e da una cicatrice di guerra sulla fronte.
E’ chiaro che io preferissi mia madre: bella e fantasiosa… anche se a volte così femminile da non riuscire a capirmi.
Crescendo, il rapporto con il padre non è migliorato, anzi: già a 15 anni mi proponeva sfide nel presente e nel futuro e quel che mi dava più fastidio, l’ho già scritto, era di essere presentato ai “grandi” come “il figlio di Franco Spotorno”. A Celle diventava: “U l’è u figgiu du Checchin”.
Foto
Franco ed Enrica Spotorno
Ero già orgoglioso da ragazzo, anche se avevo già raccolto le mie prime sconfitte: ero stato bocciato in 5° ginnasio… senza riuscire a convincere nessuno che si era trattato di un’ingiustizia per “mancanza di zelo religioso”.
Oggi rifletto di quando iniziai ad amare mio padre. Non ammirarlo, ma amarlo nel senso più semplice, di provare per lui tenerezza. E’ stato quando ho visto i primi segni della vecchiaia. 
In riva al mare, in pieno sole. Ho cominciato a vedere quel ridicolo costume di lana amaranto così diverso dai miei slip, e poi vedevo il corpo fiacco uscire dai bordi del costume e le macchie della vecchiaia sulle mani.
Foto
Una delle rare fotografie insieme
Già da ragazzo ero anche troppo osservatore. Un esempio per tutti: quando mio padre era sdraiato al sole e non si accorgeva di me, io gli guardavo le unghie dei piedi. Erano spesse e giallognole. Ora guardo le mie e mi danno così fastidio che terrei sempre le calze bianche di cotone anche alla spiaggia.
Questo senso estetico che non perdona nulla, l’ho ereditato da mia madre. Era ancora una bella donna, non più “la Tedeschina di Celle”, e mi diceva: “Fine!".
​Io con la spiaggia ho chiuso. Prendo il sole sul terrazzo. Bisogna avere "dignità del proprio corpo!”, e pensavo che con tutte quelle ciccione e le “rinsecchite” che vedevo in spiaggia, mia mamma poteva sempre essere Miss Bagni Augustus.
Foto
Mia mamma Enrica Spotorno in una cartolina di Celle
Questo senso estetico, come avete capito, me lo sono ritrovato anch’io dopo tanti anni.
Andando in riva al mare sono tormentato dal dubbio: “mi nascondo dietro l’ennesima maglietta nera, o la mia intelligenza non ha bisogno di questi trucchi?”.
Ritornando a mio padre, c’è stato un preciso momento in cui ho provato tenerezza e un profondo dolore per lui: eravamo insieme sulla nostra lancetta gialla, la “3G” a prendere le cozze, io, come sempre, stavo sui remi e lo dovevo aiutare a prendere le cozze che, mio padre, da vecchio primitivo, infilava nel costume di lana.
Foto
Franco Spotorno pesca i muscoli a 30 centimetri di profondità
Quella volta, dopo il primo tuffo, lui era venuto subito a galla e perdeva sangue dal naso.  
Qualche secondo prima avevo già visto che la sua capriola per scendere era stata goffa, e le pinne si erano agitate fuori dall’acqua.
In quei pochi secondi avevo compreso che mio padre si era arreso agli anni. Il mare era sempre liquido ma erano gli anni ad essere duri e solidi da superare. Ho sentito dentro di me una dolcezza che non avevo mai provato in vita mia. 
E lì è iniziata un’altra storia.
Non so neppure perché oggi racconto quest’esperienza, forse è il mio desiderio di ricevere cure e attenzioni dai miei figli senza rinunciare a “battere il pugno sul tavolo”.
Foto
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    Foto

    Guglielmo Spotorno

    Chiamato Gugi, è più cellese che milanese. Da bambino, da ragazzo, da grande. Qui ha incontrato Agata, che ha sposato, qui sono nati i primi disegni e da questa e dal suo vento sono nate le sue poesie, che lancia in aria come aquiloni. Anche colori e dipinti nascono da questo mare e da questo sole.

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